sabato 26 febbraio 2011

La ley de los políticos

Los que se denominan “políticos”* sólo son “idiotes”**, ya que no responden a lo que le concierne al Estado o ciudad, sino que a sus intereses propios.

* Del latín “politicus” y del griego “πολιτικός” (”politikós”), que significa “de los ciudadanos” o “del Estado”.

** Del griego “ἰδιωτικός” (”idiotikós”) o “privados", que significaba “ciudadanos privados” pero luego “incultos” o “no conociente de las artes”.

Etimología de la palabra Política

Del latín “politicus” y ésta del griego “πολιτικός” (”politikós”), que significa “de los ciudadanos” o “del Estado”, siendo el adjetivo de “πόλις” (”pólis”) que significa “ciudad” pero también “Estado” ya que la ciudad en la Grecia clásica era la única unidad estatal existente (hasta la época de los macedonios, quienes lograron unir Grecia bajo un reino). (Nótese también “πόλιτες” (”pólites”) o “ciudadanos”) Proviene de la raíz indoeuropea *p(o)lH- “lugar cerrado”como en sánscrito “pur, puram” (”ciudad”) o lituano “pilis”-”fuerte”. Similar a la palabra *gharto que significa “encerrar”, que en las lenguas germanas y nuestras derivaría a “jardín” pero que en las eslavas por ejemplo terminaría como “ciudad” en “grad” o “gorod”.

El equivalente latino a sería en realidad “civitas” como “pólis” (de donde viene la palabra “ciudad”) y “civilis” como “politikós” (de donde proviene nuestro adjetivo “civil”. Como fue mencionado anteriormente, la ciudad era la unidad estatal en Grecia, que era una de caracter democrático, un fenómeno que surgió ahí por primera vez en la historia, al menos en aquella europea. De este modo, todos los asuntos del Estado eran asuntos de todos los ciudadanos, es decir, de los habitantes de la ciudad con poder civil. Así los griegos empezaron a llamar a estos temas “politikoí”, en oposición a aquellos personales e intereses privados de los ciudadanos llamados “ἰδιωτικός” (”idiotikós”) o “privados”. Más adelante los hombres que no se preocupasen de los temas concernientes a la “pólis” se llamarían “ἰδιώτες” (”idiotes”), que significaba “ciudadanos privados” pero luego “incultos” o “no conociente de las artes”, derivando siglos más tarde a nuestra palabra actual “idiota”.

Hoy en día el término “político” se encuentra bastante desvirtuado, haciendo creer a la gente que la “política” es una profesión o carrera. Sin embargo, volviendo a las raíces de la palabra se ve que esto no es así y que muchos, de los que se denominan hoy en día “políticos” sólo son “idiotes”, ya que no responden a lo que le concierne al Estado o ciudad, sino que a sus intereses propios.

Messico, insegnare la lingua italiana nella leggendaria terra dei Maya

Emigrazione
Da quattro anni a Tlaxcala, nello stato centroamericano, è attiva una sede della Società Dante Alighieri
Abbiamo intervistato il presidente Salvatore Falco:
“I nostri corsi coinvolgono anche i bambini”

Da quattro anni a Tlaxcala, in Messico,
è attiva una sede della Società
Dante Alighieri. Il suo presidente,
Salvatore Falco, ricorda: “Nel 1998 per iniziativa
della signora Diana Passuello fu formato
qui un gruppo di 20 studenti universitari
che manifestavano interesse per l’apprendimento
dell’italiano. Successivamente,
con l’aumento del numero di persone
interessate al progetto nacque l’idea di dar
vita a una scuola di italiano alla quale seguì
concretamente la formazione di una Associazione
Civile costituita principalmente da
soci messicani. Grazie al riconoscimento da
parte della Secretaría de Educación Publica
e all’appoggio del Governo dello Stato di
Tlaxcala il 21 febbraio 2000, alla presenza
del Governatore dello Stato Alfonso Sanchez
Anaya e dell’ambasciatore d’Italia in
Messico, dr. Bruno Cabras, venne inaugurata
la Società Dante Alighieri di Tlaxcala,
l’ottava e più giovane Dante Alighieri della
Repubblica Messicana”. “Dopo più di quattro
anni di attività – aggiunge Falco -, la
Dante Alighieri è oggi perfettamente inserita
nel contesto culturale dello Stato di Tlaxcala.
Riunisce ogni semestre più di 120 studenti
in costante crescita e la cui età va dai
7 ai 75 anni. I corsi di italiano sono strutturati
su quattro livelli, ognuno corrispondente
ad un semestre di insegnamento:
basico, per lo studio delle strutture base
della grammatica e del vocabolario, e per
l’apprendimento della fonetica e della grafia
della lingua italiana; intermedio, durante
il quale si rinforzano le conoscenze grammaticali
e lessicali, mentre si introducono
gli studenti all’uso contestualizzato della
lingua; avanzato, nel corso del quale si
completano le strutture grammaticali che si
applicano nei più svariati contesti simulati
di lingua orale, ma anche scritta e formale;
superiore, nel quale si amplia il lessico degli
studenti e si rinforza la conoscenza strutturale
attraverso discussioni e relazioni anche
scritte sulle più svariate tematiche legate
alla cultura, all’arte, alla cronaca e alla
società italiana”.
Non solo adulti frequentano però la Dante
Alighieri... “E direi che i corsi per bambini
meritano una speciale menzione – sottolinea
Falco -. Questi corsi introducono, con
giochi e intrattenimento anche audiovisivo,
bambini e bambine nell’età della prima
scolarizzazione (7-10 anni) all’apprendimento
dell’italiano come lingua straniera.
Ma tornando alle attività in generale, voglio
ricordare che sono numerose quelle extra,
per le quali ci avvaliamo del coinvolgimento
attivo dei nostri studenti e della stessa
comunità tlaxcalteca. Oltre alla costante
possibilità di partecipare a conferenze sulla
cultura italianam gli studenti prendono
parte con il personale della scuola a iniziative
culturali, artistiche, cicli di cinema, sempre
in attinenza con la vita e la civiltà italiana,
collaborazioni con l’Instituto Tlaxcalteca
de la Cultura, operazioni umanitarie e
sociali, e campagne di raccolte fondi per la
scuola stessa”. Vengono assegnate anche
borse di studio? “Certo. La borsa di studio
Società Dante Alighieri di Tlaxcala-Gobierno
del Estado de Tlaxcala, ha già permesso
tre volte di portare lo studente più meritevole
tra i diplomati di ogni anno a perfezionare
la propria conoscenza e a ottenere un
Diploma Ufficiale presso l’Università per
Stranieri di Perugia. Così gli studenti, al loro
ritorno, possono fornire un aiuto di altissimo
livello anche nella didattica dell’italiano
per spagnoli. Altre borse di studio offerte
dalla scuola o patrocinate da altri enti
governativi come il Congresso dello Stato,
permettono agli studenti meritevoli, ma
economicamente disagiati, il proseguimento
dei propri studi di italiano”. Come però è
facile immaginare, ci sono anche dei problemi
nella vita della Dante Alighieri: “Con
la sua identità di ente morale senza fini di
lucro e la totale indipendenza finanziaria,
con le conseguenti difficoltà nel mantenersi,
la Società Dante Alighieri continua a
essere un solido punto di divulgazione della
cultura umana, artistica e sociale italiana –
spiega il presidente -, che getta quotidianamente
e con orgoglio un ponte tra il nostro
Paese e questo Stato culla della civiltà messicana.
Purtroppo però non si può andare
avanti contando sul supporto di un organo
di governo straniero e il rischio effettivo ed
evidente è la sua definitiva chiusura, determinando
un fallimento generale delle idee
e dei valori che contraddistinguono questa
istituzione e, se ci è permesso, dimostrando
una volta di più l’impossibilità da parte
dello Stato Italiano di dar fondo all’enorme
ricchezza umana presente nei suoi cittadini
all’estero”. “Indipendentemente dalle sue
impossibilità economiche – aggiunge Falco
- , la Società Dante Alighieri di Tlaxcala rappresenta
un punto di riferimento unico per
la divulgazione e il conoscimento della lingua
e della cultura italiana su un territorio
che può ancora godere ampiamente della
sua opera di diffusione e che è un importante
ponte tra le imprese italiane e lo Stato
di Tlaxcala, la cui posizione è logisticamente
strategica per la Repubblica Messicana e
le Americhe. Per questa ragione, è nostra
priorità per questo nuovo anno, arricchire
la nostra piccola e povera biblioteca di
nuovi testi per far conoscere l’Italia e le sue
bellezze culturali e artistiche”. “A questo
proposito – conclude il presidente - approfitto
per fare un appello. Mi rivolgo a tutti
coloro che possano appoggiarci in questa
iniziativa a favore dei nostri studenti. Chiedo
che chi può ci invii libri, riviste o materiali
digitali sulla storia, cultura e arte italiana,
in modo da aiutarci a coprire parte delle
nostre attività”.

Salvatore e sus alumnos dicen NO a La GUERRA EN IRAQ

AMBICIONES DE BUSH SOBRE IRAK

ESTA ES UNA GUERRA QUE PRETENDE FRACTURAR EL ORDEN POLITICO NTERNACIONAL Y SOBRE TODO BUSCA ROMPER LA UNIDAD Y LA CREDIBILIDAD DE LAS NACIONES UNIDAS.

VAN TRAS EL PETROLEO, PERO NO UNICAMENTE IRAK ESTA EN SUS PLANES: ESTA IGUAL IRAN Y ARABIA SAUDITA. QUIEREN DOMINAR Y REPARTIRSE EL GOLFO PERSICO Y CREAR UNA ESPECIE DE PROTECTORADO REGIDO POR ESTADOS UNIDOS Y GRAN BRETAÑA.

QUIEREN DIVIDIRSE LOS PAISES EN DOS PARTES COMO BOTINES DE GUERRA.
ENTRE OTROS FACTORES ESTA EL ENERGETICO. LA POSIBILIDAD DE CONTROLAR EL PETROLEO DE LOS PAISES CON MAS RECURSOS LES ABRE LA OPORTUNIDAD DE REGIR EN LOS PRECIOS FUTUROS DEL PETROLEO EN EL MERCADO INTERNACIONAL.

ADEMAS PRETENDE REORDENAR LAS FUERZAS DE ORIENTE MEDIO, FORTALECER A ISRAEL COMO POTENCIA Y DARLE AL PUEBLO PALESTINO UN SUPUESTO ESTADO “INDEPENDIENTE “ Y “DEMOCRATICO” PERO CON LA MANO YANQUI DETRÁS.

ESTADOS UNIDOS QUIERE INMISCUIRSE EN UNA REGION DE CULTURA, IDEOLOGICA Y RELIGIOSAMENTE NO ENTIENDE. QUE ELLOS TIENEN
HISTORIA Y ANTEPASADO.

TODAS LAS RELIGIONES PARTEN Y A LA VEZ CONFLUYEN AHÍ.



ABRIL-2003

Gracias, gran líder George W. Bush.

Gracias por haber conseguido lo que pocos han conseguido en este siglo: unir a millones de personas en todos los continentes luchando por la misma idea aun cuando esta idea sea opuesta a la suya.

Gracias por hacernos sentir nuevamente que, aunque nuestras palabras no sean oídas, por lo menos son pronunciadas, y esto nos dará más fuerza en el futuro. .

Gracias por ignorarnos, por marginar a todos aquellos que tomaron una actitud contra su decisión, pues el futuro de la Tierra es de los excluidos.

Gracias porque, sin usted, no habríamos conocido nuestra capacidad de movilización. Quizá no sirva para nada en el presente, pero seguramente será útil más adelante. Ahora que los tambores de guerra parecen sonar de manera irreversible. .

Gracias por permitirnos a todos, un ejército de anónimos que se
manifiestan por las calles intentando parar un proceso ya en marcha, conocer la sensación de impotencia, aprender a lidiar con ella y transformarla.

Gracias porque no nos escucho y por no tomarnos en serio.
Pero sepa que nosotros le escuchamos y no olvidaremos sus palabras.
Salvatore y los alumnos de 8o de idiomas de la Universidad Europea de Puebla



Muchas gracias.

QUI CUBA. UN ANNO DOPO.

"Che Cuba, con le sue infinite possibilita’ si apra al mondo e che il mondo si apra a Cuba".

Queste parole che un anno fa il Papa ha espresso nel saluto iniziale nell’aereoporto de La Habana, sono ancora vive nella mia mente e nel mio cuore. L’invito del Papa era rivolto a tutti e ad ognuno. Un invito a cercare insieme i cammini della verità, della giustizia e della solidarietà. Un invito, a realizzare la trasformazione delle coscienze e dei cuori abbattendo i muri dei pregiudizi e dell’indifferenza di fronte a un popolo che soffre per un regime che non ha più senso, dopo la caduta del comunismo in Europa. Un invito a costruire ponti di solidarietà, di condivisione con un popolo che vuole scrivere una sua nuova storia.

Sono stato a Cuba, terra definita da Cristoforo Colombo come "la più bella che gli occhi umani han visto", giusto un anno dopo quelle parole del Papa, rispondendo personalmente al suo invito. L’occasione mi si è presentata alcuni mesi fa quando ho conosciuto a Francisco Javier Torres, un giovane messicano promotore di un mini progetto di aiuto alla Parrocchia "Maria Ausiliatrice" dei Salesiani, nella zona vecchia de La Habana. Con lui e con altri venti giovani siamo partiti per Cuba il 27 di Dicembre scorso.

Lo scopo principale del viaggio era quello di fare arrivare alla Parrocchia generi di prima necessità come: medicine, vestiti, scarpe, giochi e caramelle per i bambini dell’oratorio parrocchiale. L’altro obbiettivo del viaggio era quello di portare un sorriso, un aliento e condividere giorni pieni di fede, amor, pace e speranza con i bambini e giovani dell’ oratorio.

Fin dal nostro arrivo abbiamo potuto costatare la accoglienza calorosa e amichevole, la alegria che caratterizza questi giovani. Il loro giovane spirito religioso, i loro affanni, le alegrie, la musica, le sofferenze e la loro storia, sono per me un ricordo indelebile e pieno di significato nella mia vita di missionario.

Ho conosciuto bambini e giovani alegri, sinceri, autentici, intelligenti e amanti della libertà, con spiccate capacità artistiche e creative. Disponibili sempre a intraprendere grandi e nobili imprese, che fanno le cose con grande passione e interesse. Quello che mi ha sorpreso di più è stata la loro capacità a superare le difficoltà e le contraddizioni. Non sono ricchi di cose materiali, vivono condizioni economiche difficili. Il paese sta vivendo una crisi economica spaventosa, soprattutto dopo la caduta della Unione Sovietica e a causa delle misure economiche restrittive imposte da fuori. Il vedere che non possono comprare il necessario per vivere, costretti a comprare i generi di prima necessita’ con una tessera, mi ha riportato indietro nel tempo e a immaginare quello che hanno vissuto molti dei nostri genitori e nonni durante il fascismo in Italia. La violenza più grave che subiscono ogni giorno da parte dell’ideologia socialista, è la frustrazione dei loro propri e leggittimi progetti e ideali, privati incluso molte volte della stessa speranza. Molti di loro sono comunisti per convenienza, ma critici di fronte al sistema. Mi diceva una ragazza dell’oratorio che a Cuba non esiste il "socialismo", ma il "sociolismo", perchè essere "socio" del sistema ti permette di vivere meglio. Questa èstata anche l’arma per cancellare ogni aspirazione religiosa dalla gente. Essere cattolico praticante significa non poter accedere agli studi, al lavoro anche se mal pagato (un maestro guadagna 10 dollari al mese). Il regime sa che esiste una profonda crisi d’identità tra i giovani per cui negli ultimi tempi sta riproponendo con ritmo martellante gli ideali e gli eroi della rivoluzione (il Che, Tania la guerrigliera, ecc.). In 40 anni il "sistema" ha solo cercato di distruggere le coscienze, creando un vuoto enorme: relativismo, inddiferenza religiosa, insufficiente dimensione morale, una vita senza senso, senza futuro che porta ai giovani a vivere senza senso, senza progetti, asfissiati per l’immediato e il subito. Tentati di arrendersi di fronte agli idoli della società dei consumi, affascinati dal suo luccichio fugace. Tutto questo porta a diverse forme di fuga dal mondo e dalla società; per non soccombere di fronte all’assenza di ideali, che conduce all’autodistruzione della propria personalità mediante l’alcolismo, il suicidio, la droga e la prostituzione.

Nonostante tutto ho visto tanta voglia di uscire da questo incubo che dura da 40 anni. Passando per una strada de La Habana e leggendo un murale che diceva a grandi lettere: "Noi crediamo nel socialismo!", domandavo al giovane che mi accompagnava: "E tu credi nel socialismo?", come risposta ricevevo un sorriso ironico e alla domanda: "E credi in Dio?", mi rispondeva sorprendentemente: "Meno male che Lui esiste!" .

Lasciando questa terra amata, porto con me un ricordo indimenticabile dei giorni trascorsi laggiù e la certezza che un giorno tutto finirà, con una grande speranza nel futuro di questi giovani e della loro patria.
Salvatore Falco 
Pubblicato in "Redenzione" 1999. Napoli 

 

CADA PERSONA ES UNA HISTORIA SAGRADA

El pensamiento y la experiencia de Jean Vanier



1. EL SENTIDO DE LA VIDA.

En nuestro mundo moderno, ¿que sentido se le puede dar a la vida?, ¿que sentido se puede proponer? ¡Tantas personas actualmente están buscando, tantas están perdidas y han perdido la referencia ética, a tantas no les satisface una vida puramente materialista, con unos placeres efímeros o con una búsqueda de poder y de éxito! Tantas entre ellas tienen una inmensa buena voluntad; quieren la justicia, la comunión, la paz. Pero no saben que dirección tomar. La política resulta a menuda falsa, las religiones con frecuencia parecen cerradas y legalistas; la tecnología resulta deshumanizante. Tenemos dos elementos esenciales en la vida humana que pueden darle un sentido, tanto en personas de buena voluntad, sin religión, como en personas que buscan a Dios sea cuál sea su religión. Ser y estar abierto. Tener una identidad clara y estar abierto a los demás. La identidad se recibe a través de la tierra, la familia, la cultura, la educación, a través de la salud física y psicológica; pero también se forma a través de la elección de una profesión, a través de nuestros dones y capacidades, de los valores y motivaciones fundamentales de la vida, de los amigos, de los lugares en los que uno compromete y a través la búsqueda de la verdad sobre uno mismo y sobre la vida. Abrirse a los demás, sobre todo a aquellos diferentes a nosotros, es verles no como rivales o enemigos a los que se juzga o rechaza, sino como a hermanos, hermanas en una misma humanidad, capaces de trasmitirnos la luz de la verdad que se esconde en ellos y con quien se puede vivir en comunión.

Cada ser humano tiene su secreto, su misterio. En algunos se ve claramente el sentido de su vida, en otros difícilmente se ve. Hay un sentido en la vida de cada uno, aunque no se vea. Creo en "la historia sagrada de cada persona," en su belleza y su valor. Esto existe incluso aunque tenga una deficiencia profunda. Cada ser es importante, es capaz de cambiar, de evolucionar, de abrirse un poco más, de responder al amor, de acudir a un encuentro de comunión.

Creo más que nunca en el valor único de cada persona, sean cual sean sus limites; en la necesidad de construir una sociedad más humana donde todo hombre sea reconocido y encuentre su sitio ya que todos tenemos una verdad diferente que aportar.

Las personas con una limitación intelectual me han enseñado que cuando falla la inteligencia se desarrolla más el corazón. Las personas que tienen alguna deficiencia mental o física también nos interrogan con sus cuerpos abatidos y rotos: ¿Por que? ¿Por que estoy así? ¿Por que no me quieren mis padres? ¿Por que no soy como mis hermanos y hermanas? Siempre existen y existirán prejuicios con respecto a ellos. Se les tratas de una forma distante, a veces con piedad, pero más frecuente con desprecio. Un ancho muro los separas de aquellos que son llamados con un nombre terrible: "la gente normal".

Las personas con deficiencia mental, tan limitadas intelectualmente y manualmente, con frecuencia están más dotadas que los "normales" en el plano afectivo y relacional. Sus limitaciones están compensadas por un hiperdesarrollo de ingenuidad y confianza en los demás. Estos seres están más cerca de lo esencial. En nuestras sociedades competitivas que ponen el acento en la fuerza y el valor, tienen más dificultades en encontrar su lugar y parten como perdedores en todas las competiciones. Como contrapartida, dadas sus necesidad y su gusto por la amistad, y por la comunión de los corazones, las personas débiles pueden tocar la sensibilidad y transformar a las más fuertes. En nuestras sociedades fragmentadas y a veces dislocadas, en las ciudades de acero, cristal y soledad, estas limitaciones forman como un cemento que puede unir las personas y crear comunión. Entonces se descubre que estas tienen un lugar, que tienen un papel que desempeñar en las curaciones de los corazones y en la destrucción de las barreras que separan a los seres humanos y que les impiden ser felices.

Vamos en seguida a tratar de devolver su humanidad particular a las personas con una deficiencia, humanidad que les ha sido robada. Se trata de crear un medio acogedor y familiar en el que cada persona pueda desarrollarse según sus posibilidades, vivir lo más feliz posible y ser ella misma.



2. CREAR COMUNIÓN.

La comunión es muy distinta a la generosidad. La generosidad consiste en arrojar semillas de bondad, en hacer el bien a los demás, en ejercer las virtudes heroicas, en dar dinero, en dedicarse a los demás. El generoso es fuerte, tiene poder, hace pero no se deja tocar, no es vulnerable. En la comunión uno se vuelve vulnerable, se deja tocar por el otro. Se da una reciprocidad: una reciprocidad que pasa por la mirada, por el tacto. Es un tomar y dar amor, un reconocimiento mutuo que puede hacer brotar la sonrisa o puede llegar a lo profundo con compasión y las lagrimas. La comunión se fundamenta en confianza mutua en la que cada uno da al otro y recibe en lo más profundo y silencioso de su ser. La comunión se manifiesta en primer lugar en el amor de una madre o de un padre con su hijo. La sonrisa y la mirada del hijo llenan de alegría el corazón de la madre y la sonrisa y la mirada de la madre llenan de alegría el corazón del hijo. Se revelan el uno al otro. No se sabe si la madre da màs al hijo o si el hijo da màs a la madre. Esta comunión se realiza a través del tacto, de la mirada, del juego, de la comida, el baño, los cuidados: la madre ríe, juega, es cariñosa, y el hijo le responde con la sonrisa y la risa, con su alegría y con el movimiento de su cuerpo. ¿Que ocurre en este vaivén de amor? A través de su tacto, de su mirada, la madre o el padre dicen al niño: "eres bello, eres digno de ser amado, eres valioso, eres importantes". Y lo mismo ocurre con el niño hacia su madre. El niño que mira a su madre, el niño que ríe, manifiesta a la madre su propia belleza. Esta comunión es una realidad profundamente humana, constituye lo más fundamental que hay en la vida y en la psicología humana. Forma la base que va a permitir a cada uno de entrar progresivamente en comunión con la realidad de su medio humano, de los demás, del universo. El niño que no ha vivido esta comunión no podrá tener confianza en si mismo; vivirá en el temor y crearà mecanismos de defensa y de agresión para protegerse.

Un ejemplo de lo que significa comunión es la vida de Eric. Un joven ciego, sordo, no andaba, no hablaba y no podía alimentarse solo; tenia una profunda limitación intelectual. Sin embargo, su madre, una buena mujer, no soportaba el sufrimiento de su hijo, y no sintiéndose capaz de ayudarle, le llevó a un hospital psiquiatrico cuando tenia cuatro años. El pequeño, pobre como era, no podía comprender por que su madre ya no estaba, por que ahora le tocaban una multitud de personas y a veces con agresividad. Estaba perdido. Los pocos puntos de referencia que tenia se habían esfumado. Se sentía solo en un mundo hostil. Pasó doce años en el hospital. Tenia unas carencias afectivas terribles. Su corazón era como un gran vacío lleno de miedo y de angustia. Cuando alguien se acercaba a el, tocaba sus manos o sus pies y después comenzaba a agarrarse dando alaridos para que alguien le tocara, para que alguien le amara. Su grito era tan total, tan agresivo, que resultaba insoportable escucharle, recibirle. Había que librarse de sus abrazos. Es evidente que en el hospital se le consideraba un chico que pedía demasiado y mal; con el no había gratificaciones. Estaba muy angustiado, se agitaba mucho, por lo que resultaba difícil de soportar por las enfermeras. De esta forma sus angustias y agresividades fueron desarrollándose hasta un punto insostenible tanto para el como para los demás. No estaba tranquilo, tenia incontinencia, gestos bruscos, daba gritos terribles. Claramente se estaba formando en su interior una imagen herida de si mismo. Eric vivía el drama de muchos niños que tienen una deficiencia profunda. No se les soporta. Sus padres no siempre pueden darles el amor, la comunión, la ternura y los cuidados que necesitan. El niño pequeño no vive sino por la comunión, la mirada y las manos de ternura de la madre. Si se encuentra solo está en peligro. No puede defenderse, es demasiado pequeño, demasiado vulnerable, no tiene defensas. Si no se siente amado, querido, si no ocupa su lugar, vive las angustias del aislamiento. Es el drama del niño abandonado. Se siente solo, rechazado, cree que es porque no es bueno. Porque no es digno de ser amado. Se siente culpable de existir. Está obligado a defenderse como puede y se encierra cada vez mas. Cuando encontramos a alguien como Eric, lo único que hay que tratar de mostrarle es que estamos contentos de que exista, que le amamos y le aceptamos tal y como es. Pero ¿como demostrárselo si no ve ni oye? No le podemos decir nada. El único camino posible es a través del tacto, el único lenguaje en estos caso es el de la ternura a través de las manos: un lenguaje de dulzura, de seguridad, pero también un lenguaje que revela que es digno de ser amado. El cuerpo constituye así, el fundamento y el instrumento de al comunión. De esta forma, por todo el cuerpo, por la mirada, el tacto y la escucha, se puede manifestar a alguien que es bello, que es inteligente, que es valioso, que es único.
Para la comunión, el lenguaje más importante es el no verbal: el gesto la mirada, el tono de voz, la actitud del cuerpo. Son estas cosas las que revelan el interés que se tiene por el otro, lo mismo que el desinterés, el desprecio y el rechazo. Para los que tienen deficiencias en el plano del lenguaje verbal, el cuerpo se convierte en lenguaje esencial. Cuando el niño o la persona que no puede explicarse mediante la palabra sabe que es comprendida nace en ella una nueva convicción: la convicción de que es una persona que tiene derecho a poseer y expresar sus deseos, que es comprendida, la convicción de ser y de tener un valor.

Las personas débiles nos conducen a lo màs profundo que hay en nosotros mismos. Sus rostros alegres, sus cuerpos relajados, nos revelan lo que somos. Uno se hace pobre ante el otro, se descubre que no se tiene nada externo para dar; solamente el corazón, la amistad, la presencia. Y todo esto ocurre con pocas palabras, a través de la mirada y del tacto. En ese momento es cuando se descubre que en esta persona debilitada, desamparada, existe una luz que brilla, que escuchándole uno se enriquece, se aprende algo de lo humano y de Dios. Es un momento de comunión que es fuente de curación para los dos.

Nosotros estamos acostumbrados a que el débil necesite del fuerte. Es evidente. Pero la unidad interior, la curación interior, se realiza cuando el fuerte descubre que necesita del débil. El débil despierta y revela su corazón; despierta las energías de ternura y de compasión, de bondad y de comunión. Despierta la fuente. Descubriendo la belleza y la luz en el débil, el fuerte comienza a descubrir la belleza y la luz de la propia debilidad. Más aun, descubre la debilidad como el lugar privilegiado del amor y la comunión. El débil molesta pero también despierta el corazón, lo transforma y le hace descubrir una nueva dimensión de la humanidad. Le introduce no en un mundo de acción y competividad sino en un mundo de contemplación, de presencia y de ternura.

La dificultad en este ámbito no consiste tanto en detenerse y escuchar a una persona diferente. Ciertamente existe el miedo a volverse vulnerable, el miedo incluso de que el otro abuse de nosotros, pero, más profundamente, existe el miedo por todas las consecuencias. ¿Estamos dispuestos a ser incomodados así y a vivir todas las consecuencias de la comunión? Consecuencias que afectan el empleo del tiempo, a la disponibilidad, a las responsabilidades ya tomadas, o quizá simplemente a la posibilidad psicológica y afectiva de acoger a otra persona en nuestro interior. Hay que optar. ¿Estamos dispuestos a orientar nuestra vida de otra forma, a renunciar a algunas actividades, a algunas momentos de ocio o algunas distracciones, incluso a una cierta forma de trabajo que gusta, a alguna amistades superficiales, para vivir una nueva forma de relación? En efecto esta relación, en la que se descubre a la persona desvalida, sus sufrimientos, su grito, su necesidad profunda, conduce a nuevos caminos en los que las barreras del corazón comienzan a caer, en los que uno se vuelve un hombre o una mujer de comunión. Un camino de liberación, de paz interior, un camino de esperanza.


Taller

"La estructura y organización de la Familia con un hijo con discapacidad" Mérida, Yucatán. Mayo 1999.

C'ero anch'io

Grande adesione allo sciopero generale del 16 aprile a Torino. La città "licenzia" Berlusconi, oltre 150mila i lavoratori confluiti in piazza San Carlo, ma c'è stata guerra di numeri come al solito, la questura parla di 100mila. Quello che conta è che c'ero anch'io tra i numerosissimi manifestanti. Quello che più mi ha colpito è stata la volontà ferrea con cui si vuole difendere l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, e non solo, di questo popolo di lavoratori, dipendenti, pensionati, giovani che pacificamente e con slogan a volte anche simpatici si è riversato nelle strade della città. La fantasia dei partecipanti ha avuto ampia occasione si manifestarsi. Tra gli slogan più gettonati "Dura lotta: l'articolo 18 non si tocca" e "Chi non salta Berlusconi è" fino al classico "Berlusconi, Berlusconi vaffanculo". Pittoreschi anche i cartelli, come quello che raffigurava una cuccia per cani con catene e collari e sopra scritto "Casa delle libertà", oppure quello scritto a mano che recitava "Un accorato appello alla ragione a chi ha votato Berlusconi: ravvedetevi, prima che costui distrugga questo paese!". Tra gli striscioni più impegnati quello dei comunisti italiani: "Reddito, diritti, dignità"! Niente di rotto nella città e solo qualche scritta sui muri, prese di mira, dalla frangia "antagonista" dei cortei, le agenzie di lavoro interinale e le sedi di alcune banche. Almeno due agenzie di lavoro in affitto hanno avute le vetrine oscurate da un telo bianco, in quanto simbolo della precarizzazione del lavoro secondo il governo. Lancio di uova, immondizia e scritte anti-Berlusconi nelle sedi di Forza Italia e della Lega. Si è trattato di un gruppetto di manifestanti che si è staccato da uno dei tre cortei e che ha scritto negli ascensori della sede regionale di Forza Italia "Razzisti" e "Berlusconi alla gogna", un vetro del portone è stato rotto e prima di fuggire hanno rovesciato un bidone di immondizia. La reazione di Forza Italia è stata sproporzionata si è parlato di ritorno "ad atti ingovernabili" e di "attacco a un partito democratico", che sarebbe poi quello di proprietà dell'uomo più ricco del Paese.

Tornando alla piazza, nel suo intervento, il segretario nazionale della Cgil, Paolo Nerozzi, ha preso posizione sul caso del delegato sindacale Mario Bertolo licenziato dalla Pininfarina. "Un licenziamento dovuto a ragioni puramente aziendali e conseguenza di un grave atto di insubordinazione", così si giustifica l'azienda. "un grave atto di intimidazione, un eccesso di reazione aziendale che avviene proprio nella fabbrica del presidente dell'Unione industriale di Torino", ribattono i sindacati. Bertolo, da 31 anni delegato di fabbrica, è accusato di insubordinazione, perché non è stato trovato al suo posto di lavoro quando la dirigenza doveva notificargli l'inizio della cassa integrazione, e per di più ha lavorato il giorno dopo, ossia il primo di "cassa". Per i sindacati è un atto gravissimo, figlio della campagna portata avanti dalla Confindustria e della politica di questo governo e ha annunciato che faranno causa all'azienda proprio in forza dell'articolo 18, e meno male che non è stato ancora abolito!

Il terrore dei licenziamenti non è infondato, alla Gefco di Milano, azienda che distribuisce ricambi alla Citroen e Peugeot, alcuni operai non hanno scioperato per paura di essere licenziati. Da febbraio a marzo in questa fabbrica sono stati, infatti, mandati a casa quattro iscritti alle confederazioni sindacali, è chiara quindi l'intenzione di sfrattare i sindacati dalla fabbrica. Con quale faccia il governo e Confindustria garantiscono agli italiani che abolendo l'articolo 18 non ci saranno licenziamenti ingiusti: "nemmeno uno" secondo le affermazioni del ministro delle Attività Produttive Antonio Marzano. Come si può garantire con certezza in Italia (e non siamo in Gran Bretagna, Francia o Germania) che abolendo l'articolo 18 non ci sarà un solo "licenziamento ingiusto", sembra proprio di risentire la fatidica frase detta da tanti genitori al proprio figlio per farlo stare buono: "se fai il bravo ti porto una bella cosa!". Non dimentichiamoci che la battaglia sull'articolo 18 fu la madre di tutte le battaglie operaie degli anni sessanta, poiché su quell'articolo si giocava la pari dignità del "lavoro" con il "capitale" all'interno delle grandi attività produttive e che da questa pari dignità si è costruita una delle cinque potenze industriali del pianeta. Purtroppo la gente dalle nostre parti dimentica facilmente!

Il governo dice che dopo lo sciopero si torna a trattare ma, come affermava il vice presidente Fini all'indomani dello sciopero, che si va avanti con la riforma dell'articolo 18. Probabilmente il governo si illude che lo sciopero generale sia solo un rituale barbarico di tredici milioni di italiani in delirio, che la modifica dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori sia una bazzecola, che il lavoro "in leasing" sia la soluzione della disoccupazione in Italia e che i 5.000 cassaintegrati Fiat di oggi e i 30 mila posti di lavoro in esubero nel 2002, saranno riassorbiti con il lavoro interinale. Ma che bella pensata! I sindacati confederali, invece, si sentono più forti nella loro difesa dell'articolo 18 dopo il successo della manifestazione in tutta Italia.

Moltissimo resta da fare per estendere le tutele ai nuovi lavoratori atipici, a rischio di precarizzazione a vita. Sarebbe ora che agli industriali italiani entrasse in testa che un lavoratore contento, ben pagato e valorizzato produce, e rende, molto di più di un operaio usa e getta, precario e mal pagato.

Due pesi due misure

DUE PESI DUE MISURE

Il divorzio è "una piaga" per la società civile e ha effetti "devastanti", Giovanni Paolo II ha usato parole durissime contro chi non riconosce, anche da un punto di vista legislativo, l'indissolubilità del matrimonio, e ha rivolto un appello all’obiezione di coscienza di giudici e avvocati civili nel "declinare" la loro cooperazione "per una finalità contraria alla giustizia com'è il divorzio". L'assenza dell'indissolubilità matrimoniale, ha proseguito Giovanni Paolo II nel suo discorso, "ha conseguenze che si propagano nel campo sociale e influiscono negativamente sulle nuove generazioni dinanzi alle quali viene offuscata la bellezza del vero matrimonio". È inutile nascondere che il monito di Giovanni Paolo II non è piaciuto a molti, secondo un sondaggio di Datamedia Ricerche, l'87% degli intervistati ha espresso parere negativo sulla secca presa di posizione del Vaticano. Il monito del Papa contro il divorzio non trova d'accordo 9 italiani su 10 e gli operatori del diritto, dai quali piovono molte prese di distanza. A partire dagli avvocati, che giudicano "irricevibile" l'invito del Pontefice. "Se si fosse rivolto agli avvocati cattolici non ci sarebbe stato nulla da eccepire" ha osservato il presidente del Consiglio Nazionale forense Nicola Buccico che ha rivendicato anche "la necessità di assistere e difendere i cittadini che a noi si rivolgono per conseguire i diritti decisi dalle leggi". Anche il ministro della Giustizia Roberto Castelli, chiude la porta all'appello del Papa, l'obiezione di coscienza ''da parte dei magistrati non è possibile; non è immaginabile un magistrato che possa fare disubbidienza civile''. Insomma: "libero Stato e libera Chiesa".

Stando al sondaggio di Datamedia, il 63,6% degli intervistati dice di essere "poco d'accordo, mentre il 23,9% "non è per nulla d'accordo". Contro l'11,6 di risposte positive di cui l'8,3% abbastanza d'accordo e il 3,3% molto d'accordo. Una posizione, spiega Datamedia "confermata anche dalla richiesta di ritorno a pieno titolo dei divorziati e risposati nel seno della Chiesa". Inoltre, un precedente sondaggio effettuato dalla stessa società aveva evidenziato che il 74,7% degli italiani rispondeva sì all'ipotesi (mentre il 16,8% rimaneva contrario).

Proviamo a ragionare sulle ragioni "teologiche" per cui il matrimonio religioso non si può sciogliere.

L’indissolubilità del matrimonio è fondata sull’amore reciproco dei coniugi così come sull’amore reciproco è fondata l’indissolubilità delle Tre Persone Divine e l’indissolubilità del matrimonio tra Gesù lo Sposo e la Chiesa, Sposa di Gesù.

Se per impossibile, le Tre Persone Divine cessassero di amarsi, si spezzerebbe la loro unità e si dissolverebbe lo stesso Dio; se per impossibile, Gesù non amasse più la Chiesa e la Chiesa non amasse più Gesù, Gesù e la Chiesa romperebbero la loro unità sponsale.

Ciò che non è possibile nella Trinità Divina e in Gesù e nella Chiesa, si può, invece, verificare, e spesso si verifica, tra i coniugi cristiani e non cristiani. Come l’esperienza ci attesta, avviene che dei coniugi dissolvano irrimediabilmente il loro matrimonio per colpa di uno solo o di ambedue. Ciò ci induce ad affermare che l’indissolubilità del matrimonio, per esprimerci in termini filosofici, è di ordine morale e non fisico. Ossia: i coniugi, pur essendo tenuti in coscienza a rimanere uniti, hanno, purtroppo, la triste colpevole possibilità di rompere la loro unità.

Alla medesima conclusione ci porta la riflessione sulla natura dei precetti negativi: Dio ordina all’uomo di non compiere un determinato atto perché l’uomo è in grado di compierlo, benché colpevolmente. Se l’uomo non avesse la possibilità di compiere un determinato atto peccaminoso, Dio non glielo vieterebbe: così non gli vieterebbe di rubare se non potesse rubare. Allo stesso modo, Gesù non avrebbe imposto agli sposi il precetto: "L’uomo non separi ciò che Dio ha unito" (Mt 19,6), se i coniugi non potessero separarsi.

La dissoluzione del matrimonio in modo irrimediabile come irrimediabile è l’uccisione di un uomo, assume una gravissima colpevolezza, ma la Chiesa, nei confronti dei coniugi colpevoli divorziati e risposati con una terza persona, oggi deve usare maggiore misericordia che non in passato: come perdona l’omicida veramente pentito, pur essendo nell’impossibilità di ridare la vita al fratello ucciso, così deve perdonare e riammettere ai Sacramenti i coniugi divorziati e veramente pentiti, anche se si trovano nell’impossibilità di ricostruire la loro unità e si sono risposati con un altro uomo o con un’altra donna: uno studio accurato di Giovanni Cereti prova che nei primi secoli la Chiesa, ai cristiani divorziati e risposati, concedeva di continuare a convivere con il nuovo coniuge, se erano veramente pentiti e si sottomettevano ad una adeguata penitenza.

Giovanni Paolo II ha esortato i cristiani a battersi contro ogni "rischio di permissivismo in questioni di fondo concernenti l'essenza del matrimonio e della famiglia". Ma non ha invitato ad accogliere, accettare e aiutare i tanti cristiani divorziati e che quasi sicuramente non hanno preso questa decisione senza dolore e con leggerezza, e certamente non potrà bastare il riconoscimento pubblico del matrimonio indissolubile negli ordinamenti giuridici civili per eliminare "la piaga sociale" del divorzio. Quando si parla di divorzio si pensa soprattutto alla sofferenza dei figli soprattutto se bambini. La domanda da farsi è: meglio due genitori divorziati o meglio due che senza amarsi decidono di salvare "l’essenza del matrimonio"? Ricerche sul divorzio hanno dimostrato che i bambini possono crescere felicemente anche quando i loro genitori sono divorziati. Il fattore critico è la reazione che i genitori stessi hanno durante la separazione e come affrontano il proprio dolore. Quando i genitori faticano nell’accettare il proprio divorzio per troppo tempo, anche i bambini lo fanno.

Le madri e i padri che accettano la realtà del proprio divorzio senza perpetuare la rabbia e il dolore, fanno il possibile affinché i loro bambini abbiano un’infanzia serena. I bambini soffrono di più quando i genitori rifiutano di andare avanti e continuano sul piano del pieno conflitto. Infatti, il maggior peso che bisogna superare per aiutare i bambini è sempre legato ai genitori, raramente ai bambini.

mercoledì 23 febbraio 2011

L'altra faccia della Chiesa

<> (Augusto Monterroso).

La quasi inesistente, l’irriconoscibile da parte della faccia istituzionale, la vergognosa, lo scandalo dei farisei e pubblicani, quella che rappresenta la denuncia dei sepolcri imbiancati, è, precisamente, la Chiesa luminosa ed ereditaria del messaggio di Cristo, non mi riferisco necessariamente alla cultore delle belle arti, né a quella che conservò la cultura in Occidente dopo la caduta dell’Impero Romano, ma a quella che tuttavia sopravvive in quelle comunità dove la Parola si predica con la vita, dove il dubbio è parte della fede e dove l’idea ambigua di "povertà di spirito" (cioè la certezza che è povero chi manca della parola di Dio anche se saggio), non interrompe il lavoro con i poveri della terra (quelli che non possiedono le risorse materiali, nonostante la sua fede in Dio), né si esercita in un gioco di parole per giustificare l’accumulo delle ricchezze, la vita sontuosa e lo spreco di tanti "uomini di Chiesa".

L’altra faccia della Chiesa non è segreta, dato che ha convissuto con quella istituzionale sin dal principio, è che molte volte è stata "chiusa" dalla pietra inerte in cui si è convertita la chiesa degli inizi. Non è necessario fare nomi e cognomi o mettere delle etichette, basta dire che l’altra faccia della Chiesa è quella rappresentata da tanti sacerdoti, religiosi, uomini e donne di buona volontà, molte volte emarginati ed esclusi, che si sono mossi e tuttora si muovono per far diventare "vita" il messaggio d’amore al prossimo di Gesù. In America Latina è stata chiamata "teologia della liberazione" ed è combattuta dal Vaticano, dalla borghesia iberoamericana e alla politica degli Stati Uniti, con l’accusa di comunismo. Per schiacciarla definitivamente, alla fine di questo secondo millennio, si è pensato a fondare degli organismi religiosi autodefinitosi opera di Dio e legione di Cristo.

Tutti coloro che nel corso della storia hanno cercato di mettersi con i poveri e di portare loro il messaggio di Gesù per traformarne le condizioni sociali e spirituali, sono stati sempre perseguitati dalla Chiesa istituzionale e dai suoi alleati. Coloro che hanno cercato di purificare la Chiesa, di riformarla e riportarla così alla coerenza con i principi del suo Fondatore, sono stati condannati: gli "eretici" di ieri sono i "comunisti" di oggi, gli aggettivi cambiano, ma la sostanza è la stessa. Cambiano le situazioni epocali, i paesi e i contesti, ma la risposta di coloro che vedono in pericolo i propri interessi è la stessa: anatemi, repressione e condanna.

La parola "eresia" è sintomatica di ciò che si è detto in quanto etimologicamente significa: scegliere, abbracciare un partito, connotazioni che suppongono condotte pericolosissime per una istituzione che aspira all’unanimità. Il pensare liberamente porta a verità che indipendizzano l’individuo.

Nel corso della storia tutte le idee che hanno supposto la rottura dell’ordine costituito, sono state accusate di eresia. Da Ario ai catari, da Origene a Helder Càmara, tutti i dubbi, tutte le domande e tutte le differenze, sono stati segnalati e sospettati di scisma ed eresia. Per non parlare degli attuali Tissa Balasurima, Leonardo Boff, Kung, Vallauri, Raul Vera, Zanotelli, tra i più noti, e la lista potrebbe continuare. Nella Chiesa cattolica oggi è vietato dissentire dal papa, pena il silenzio, l’allontanamento, la perdita del posto, la chiusura di scuole teologiche. Bisogna comunque ammettere che qualche passo avanti si è fatto: un tempo si rischiava il rogo! Le vittime vaticane cominciano a essere parecchie, molte di loro sono colpevoli di "inculturazione", cioè di cercare di "adeguare" la fede alle culture locali, e non viceversa.

Il fuoco purificatore arriverà un giorno a purificare la Chiesa istituzionale dai molti inferni, crimini e debiti che ha nei confronti del Dio che proclama e del genere umano. Nell’attesa di questo momento, coloro che illuminano l’altra (la vera) Chiesa e rivificano il messaggio di Gesù, sono quelli conosciuti e non conosciuti, pazzi della croce, che prendono la stessa croce del Maestro e lo seguono, anche se sono chiamati e trattati come eretici.

Breve Storia della Teologia della Liberazione

"Il primo a parlare di TDL è stato Gustavo Gutierrez, un peruviano del clero secolare diocesano che andò in Brasile alla fine degli anni '60 per studiare i movimenti di base. Da questa inchiesta arricchita dalla conoscenza che aveva della realtà dell'America Latina, è nata la sua opera che è ormai un classico, Teologia della Liberazione. Fu pubblicata nel 1970 e dedicata a un prete brasiliano che lavorava con i giovani ed era stato assassinato dai militari. Il suo nome era Antonio Pereira Neto, Niki. La Teologia della Liberazione è dedicata a lui. Poi, questa strada è stata percorsa da molti. Fra i più importanti c'è Leonardo Boff. Ma ci sono anche altre testimonianze importanti, comprese quelle di molte donne, sposate con figli, che, attratte da questa interpretazione della religione, sono diventate dottori in teologia. È un fenomeno che in Brasile e in America Latina si sta espandendo." (Da Un continente desaparecido, Gianni Minà, pp. 188-192, Sperling & Kupfer editori, 1995).

LA TDL è nata dal confronto tra la fede cristiana e la povertà. Questa situazione è sempre presente. La povertà e presente nel mondo e la Bibbia, la fede cristiana e il messaggio evangelico hanno una parola da dire su questo. Se la povertà è là, allora in questo caso la Teologia della Liberazione ha senso. Cosa è importante? L’opzione preferenziale per il povero. Oggi si chiama così, ma l’idea è molto vecchia. Questo è il centro della TDL. La preferenza di Dio per i poveri e gli abbandonati si manifesta lungo tutta la Bibbia. Nel Vangelo è il caso dei più deboli e bisognosi, dei malati, dei pubblici peccatori, delle donne e dei bambini.

La TDL raggruppa tutti i temi che corrispondono e formano la teologia: Dio, Cristo, la spiritualità, ecc. Però è chiaro che l’insegnamento sociale della Chiesa è una delle fonti.

La TDL parte sempre dalla situazione reale dei cristiani che lottano per la vita, per la terra, per i diritti umani. Per tutte quelle chiese che hanno fatto sinceramente l’opzione per i poveri contro la povertà e in favore della vita, la teologia di riferimento è la teologia DL. Tutti i gruppi dei Senza Terra (12 milioni in Brasile), le comunità di base (100.000), i gruppi biblici di base (2 milioni) e tutti gli operatori che lavorano per questa chiesa del grembiule, sentono come riferimento teorico la TDL, che non ha più la visibilità di una volta, quando c’erano gli scandali, i discorsi clamorosi ecc. ma è una teologia viva, naturale, quotidiana che si basa sull’articolazione di un progetto di lavoro, che riflette profondamente i temi della povertà, della giustizia e della fede.

Per dirla con le parole di Boff riferendosi alla Chiesa vista dal lato di coloro che hanno fatto questa opzione:

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martedì 22 febbraio 2011

JUAN DIEGO: UN NUOVO SANTO

La canonizzazione di Juan Diego ha creato molte polemiche sia tra i credenti sia tra i protestanti. Il processo di canonizzazione ha generato molti dubbi non solo sulla esistenza o inesistenza storica di Juan Diego, fatto che di per sè resta nell'ambito dell'espressione o della mancanza di fede, ma soprattutto sulla rivelanza pastorale, propagandistica e perfino politica di annotare un indigeno nel calendario cattolico.

Alcuni osservatori vedono nella santificazione un atto di giustizia e di riparazione della Chiesa Cattolica verso i popoli indigeni, mentre altri vedono l'evento come una manovra di marketing spirituale orientata a contrarrestare la perdita di fedeli tra i cattolici di America Latina, e come un tentativo di consolidazione del predominio romano in Messico e America Latina e come una reazione al noto sviluppo nella regione delle chiese evangeliche e dei culti non cristiani come l'Islam e altre religioni orientali.

La canonizzazione di Juan Diego ha fatto aumentare il numero di coloro che credono alla sua storicità, grazie anche alla manipolazione dei mas media e della Chiesa.

La controversia sull'esistenza di Juan Diego non sembra preoccupare più di tanto la Chiesa, anzi, essa si è impegnata a sfruttare e convertire il fatto e la figura di Juan Diego a fini commerciali. È curioso il fatto che il viaggio del cardinal Roger Etchegaray, fatto in Messico alcuni mesi fa, è stato offuscato dalla polemica sulla storicità di Juan Diego. Etchegaray veniva a dire la sua sui diritti degli indigeni, sulla situazione di violenza latente in Chiapas e sul lavoro pastorale della Chiesa. Per molti risulta sospetta la coincidenza tra la visita di Etchegaray e la lettera firmata a Roma da Schulenburg (ex rettore destituito del Santuario della Madonna di Guadalupe) e da altri sacerdoti. Nella lettera, pubblicata da Andrea Tornelli su Il Giornale, si afferma che Juan Diego non è esistito e che non ci sono prove storiche sul fatto. La tradizione Guadalupana come la conosciamo oggi, proviene da un manoscritto in lingua nàhuatl chiamato Nicam Mopohua, attribuito ad Antonio Valeriano, che lo avrebbe scritto verso il 1556 (25 anni dopo le presunte apparizioni), la prima edizione in spagnolo è del 1649. Il testo è di una grande bellezza letteraria, però presenta varie incongruenze che non lo fanno ritenere un documento storico. Senza entrare in dettagli, si può dire che contro della veridicità del racconto gioca un ruolo importante il silenzio di Juan de Zumàrraga, il primo vescovo di Città del Messico e presunto testimone dell'episodio.

Nei suoi innumerevoli scritti, l'illustre francescano non menziona il fatto, anzi al contrario nei suoi scritti mostra la sua radicale avversione ai fatti soprannaturali. Il silenzio di Zumàrraga non perturba l'entusiasmo degli apparizionisti, i quali giustifina il silenzio per imprecisi motivi politici e di estrema prudenza di fronte alla grandezza dell'evento. In cambio Alfonso de Montùfar, secondo vescovo di Città del Messico, riconosce pubblicamente nel 1556 l'esistenza del culto guadalupano, però non la apparizione miracolosa, né il carattere soprannaturale dell'evento. Inoltre Francisco Bustamante, provinciale dei francescani in quel tempo, accusato di causare un grande pregiudizio tra i nativi perché faceva credere che la immagine dipinta da un indio di nome Marcos era miracolosa. I risultati delle ricerche sul culto guadalupano riguardano solo pochi e la tradizione pesa più di tutti i dati storici e dimostrazioni apportate da numerosi studiosi nel corso dei secoli, da Da francisco de Bustamante y garcia Icazbalceta fino a Francisco de la Maza, olimon e lo stesso Schulengurg. Durante la conquista e il periodo coloniale questa storia fu per la Chiesa Cattolica uno strumento di evangelizzazione e di inculturazione della fede. Adesso il nuovo santo può servire per addottrinare sotto il segno di uno indigenismo lontano dalla teoria della liberazione e dalle lotte sociali. Juan Diego è un personaggio umile, semplice, mansueto, è leale diligente, in poche parole un santo del terzo mondo.

È, dunque, chiaro che dietro la falsa polemica non c'è l'esistenza di Juan Diego, ma l'appropriazione che l'indio rappresenta sia per la Chiesa sia per la società. Ci sono interessi commerciali e politici nei mezzi per la rappresentazione simbolica di Juan Diego: per alcuni continua ad essere l'indio umile, passivo e taciturno soggetto di qualche programma assistenziale o del governo, colui che nasce emarginato e che mai dice no. In questa prospettiva paternalistica l'indigeno è sempre manipolabile e testimonia che il paese ha bisogno più che di un cambio di strutture, di un cambio di cuori di ogni messicano tipo teleton. Dall'altro lato rimane l'indigeno un soggetto di diritti e un vero attore sociale, la cui dignità comincia con il rispetto della sua identità culturale e religiosa.

A parte la retorica cattolica sul rispetto e sulla predilezione per gli indigeni e le continue richieste di perdono da parte del Papa agli indigeni, la canonizzazione di Juan Diego vuole definire il ruolo della Chiesa messicana di fronte agli indigeni di questo paese. Ci sono settori che non vogliono entrare in serio in questo problema e Juan Diego risulta incomodo, per cui si preferisce promuovere l'immagine idilliaca dell' "indigeno".

I dati qui riportati sono il frutto di una ricerca di Paola Barochio Rocha dell'Università del Valle de Mexico attraverso l'analisi dell'opinione di alcuni giornalisti e dei mezzi di comunicazione sociale.



Salvatore Falco



Publicato in: Viottoli n° 10/2002,- Semestrale di formazione comunitaria.

Pensieri sciolti sul celibato

"E noi abbiamo creduto all’Amore"

La telenovela estiva di Milingo ha spaccato il mondo cattolico sul tema spinoso del celibato. In Italia e non solo, il caso Milingo-Sung ha riportato la discussione sulle ragioni umane ed ecclesiali di una legge millenaria della Chiesa Cattolica. A partire dal "caso estivo" i discorsi di piazza e quelli in ambienti ecclesiali si sono estesi sull’argomento celibato in generale.
Una prima difficoltà in ambito ecclesiale da superare è l’istintivo sospetto sul sesso, retaggio di una cultura non biblica e non evangelica.
San Paolo nella prima lettera ai Corinzi ci notifica che tutti gli Apostoli, o quasi, erano sposati e che le loro mogli li accompagnavano nei viaggi apostolici: "Non abbiamo anche noi il diritto di portare con noi una moglie credente come l’hanno gli altri Apostoli e i fratelli del Signore e Pietro?" (1 Cor 9,5). Le Lettere Pastorali, come condizione indispensabile all’Ordinazione di un Vescovo-Presbitero, esigevano che il candidato si fosse sposato una volta sola e avesse dimostrato di essere un prudente e buon padre di famiglia: "Chi, infatti, non sa governare la sua casa, come potrà avere cura della Chiesa di Dio?" (1 Tm 3,1-5).
Prima del quarto secolo, non esiste nessuna legge canonica che vieta agli sposati di ricevere il Sacramento del Sacerdozio o che proibisce il matrimonio ai sacerdoti celibi al momento dell’Ordinazione. In via ordinaria Sacerdoti e Vescovi erano sposati; solo qualcuno sceglieva il celibato. I documenti dell’epoca parlano con naturalezza e semplicità delle spose dei vescovi, dei Sacerdoti e dei loro figli. Così, ad esempio, veniamo a sapere che S. Gregorio di Nazianzo, nato nel 319, era figlio di un Vescovo, divenne lui stesso Vescovo ed ereditò da suo padre la Diocesi di Nazianzo.
Storicamente ci risulta che la prima legge ecclesiastica non riguarda il celibato in se stesso ma l’esercizio del sesso da parte dei Vescovi, dei Sacerdoti e dei Diaconi sposati. Essa fu emanata per il clero spagnolo dal Sinodo di Elvira circa l’anno 300-306: "Vescovi, Preti, Diaconi e tutti i Chierici posti al servizio dell’altare, devono astenersi da rapporti con le loro mogli e non è loro lecito mettere al mondo figlioli. Chi si oppone perde la carica" (Can. 33).
Come appare dal testo, il Sinodo proibì al clero sposato di avere rapporti intimi con le proprie mogli perché attribuiva a detti atti una qual certa dose di impurità che rendeva il clero indegno della Celebrazione Eucaristica.
Al di là di ogni altra considerazione, non possiamo esimerci dal rilevare che il Sinodo non poteva emanare la succitata norma perché nessuna legge umana può dichiarare impuro un atto naturale né proibire a dei coniugi legittimamente sposati gli atti intimi che sono propri del matrimonio da Dio istituito. Il Concilio Ecumenico Vaticano II parla degli atti intimi degli sposi in ben altra maniera: "L’amore dei coniugi è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall’esercizio degli atti che sono propri del matrimonio; ne consegue che gli atti con i quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onorabili e degni e, compiuti in modo veramente umano favoriscono la mutua donazione che essi significano, ed arricchiscono vicendevolmente in gioiosa gratitudine gli sposi stessi" (Gaudium et Spes n. 49).
Al Concilio Ecumenico di Nicea (anno 325) gli Spagnoli volevano imporre la legge di Elvira a tutta la Chiesa. Il Vescovo Panuzio, però, riuscì a convincere i Padri Conciliari a non seguire l’esempio spagnolo appoggiandosi principalmente su tre argomenti:
Non è giusto imporre agli ecclesiastici il giogo del celibato.
Il matrimonio è santo e puro.
L’eventuale istituzione della legge del celibato è un rischio per la virtù delle mogli abbandonate.
In seguito la Chiesa Latina ripudiò lo spirito del Concilio di Nicea sicché Papa Gregorio VII, nel secolo XI, impose ai vescovi e Sacerdoti sposati di astenersi dagli atti coniugali e di rimandare la propria moglie. A partire del Primo Concilio del Laterano (anno 1129) non furono più ordinati uomini sposati: l’ordinazione fu riservata agli uomini liberi da ogni legame con una donna cioè ai vedovi e ai celibi.
La storia del celibato ecclesiastico pone in risalto molte pecche umane in contraddizione con la legge naturale ed evangelica. Pur lasciando doverosamente ogni giudizio delle persone a Dio, l’unico che scruta i cuori, la Chiesa contemporanea è chiamata a riconoscere con umiltà tali ombre e a riparare il passato abolendo l’obbligatorietà del celibato del clero: il tempo e il modo per giungere a tale meta improcrastinabile si potrebbe lasciare alla prudenza delle singole Chiese Diocesane: forse è bene che si proceda per legge locale e non per leggi universali, per rispettare i diversi gradi di sensibilità e di maturità. Se l’impegno per il Regno di Dio esige ancora che parte del clero sia celibe, non mancheranno nella Chiesa Cattolica i preti celibi. Ma ricordiamo che attualmente nella Chiesa Cattolica esistono già sacerdoti sposati, mi riferisco a quelli di rito orientale (per conoscerne qualcuno basta andare a Piana degli Albanesi), quelli che sono passati dalla Chiesa Anglicana alla Chiesa Cattolica e ai centomila che nel mondo si sono per così dire "spretati", ma che rimarranno (in forza dell’ordinazione) per sempre sacerdoti.
Nel passato si è insistito e lavorato per avere un clero celibe per il Regno di Dio. Nel futuro si dovrà insistere e lavorare anche per un clero sposato per il Regno di Dio; la sposa che condivide l’impegno pastorale con lo sposo sacerdote non è un ostacolo ma un aiuto, un complemento. Ci sarà, così, un ministero di coppia con efficacia di incalcolabile portata.

Salvatore Falco

Pubblicato in <Punto d'incontro>, XII N.E., 20, 2001.

La morte di Eros.

La morte di Eros.

"Il Cristianesimo dette da bere ad Eros del veleno. Costui in verità non ne morì, ma degenerò in vizio".

Con queste folgoranti parole, Nietzsche, in "Al di là del bene e del male", traccia i rapporti tra Eros antico ed Eros moderno. Neanche Nietzsche, fiero avversario di Platone e della sua filosofia, può negare che nell'erotica pagana, compresa l'erotica platonica, si colga quell'aspirazione al tutto, che solo il Cristianesimo e la filosofia moderna manterranno poi completamente perduta, operando una netta scissione tra anima e corpo, intelletto e sensibilità, mondo sensibile e mondo soprasensibile. Nel mito platonico del Simposio, infatti, Eros non è qualcosa, ma qualcuno, un demone, figlio di Penìa, la povertà, e di Pòros, l'espediente. Dato che Eros non è un dio, ma un povero demone, aspira al bello, e non lo possiede. Ma siccome è un terribile demone e non un dio, pur se non possiede il bello, cerca di mettere in atto ogni espediente e stratagemma per goderne. L'espediente è cercarlo nelle cose terrene. La bellezza delle cose terrene, a cominciare da quella dei bei corpi, delle persone belle, è un veicolo per l'ascesi verso il bello in sé, che è al di là di tutte le cose, ma che, in diversa misura, partecipa di ognuna. Questo è Eros nella filosofia platonica: un formidabile procacciatore di bei corpi e insieme di belle anime.

Nel Cristianesimo invece la figura di Eros si può incarnare perfettamente in quella di Don Giovanni, il vizioso, che, come ci fa vedere Kierkegaard, può conquistare tutto senza andare al di là di nulla. Don Giovanni gode dei corpi e perciò condanna l'anima, la propria e quella delle sue conquiste. Quale potrebbe essere allora il nome di quel veleno, per dirla ancora con Nietzsche, che il Cristianesimo avrebbe dato da bere ad Eros? "Regno dei Cieli" forse?

Il Cristianesimo, quando era ai suoi inizi, tese a eliminare l’eros, quello terreno, in quanto identificato con la persecuzione che i primi martiri cristiani dovettero subire. Si pensi alle atroci morti di San Lorenzo e di Santa Caterina d'Alessandria. Il "nemico" era considerato come colui che pensava a straziare il corpo. Allorché le persecuzioni cessarono il Cristianesimo cambiò posizione. Mentre prima il Cristianesimo era il tradursi di numerose dottrine stoiche, e di conseguenza si adottavano forme di "automartirio" quali il digiuno, la fustigazione, la castità, la dottrina dell'amore cristiano, dal IV secolo in poi, sempre più raccomandò all'uomo una forma di controllo su se stesso che passasse anche attraverso la diminuzione dell’eros, in altre parole del desiderio per le cose, per i corpi, per la bellezza mondana. Il Cristianesimo sostituisce l'amore per le cose terrene, che offrono una felicità limitata, con l'amore per le cose celesti, per Dio, per il Paradiso, unico e solo capace di dare una felicità maggiore. Certamente la Chiesa ha da sempre imposto un autocontrollo sull’eros e ha contribuito, in qualche modo, alla denigrazione dell’eros. Si pensi al Quinto Canto dell'Inferno di Dante, quello di Paolo e Francesca. In esso v'è la condanna del desiderio carnale. Nella dottrina paolina, la "lotta contro la carne", in quanto sinonimo di "diabolico", è sinonimo di ribellione a Dio. Persino il diavolo, che è puro spirito, è considerato come istigatore della carne, e carne esso stesso.

Per fortuna non tutto il Cristianesimo professa la negazione del corpo. L'invito alla fustigazione non sempre è presente. Anzi, nel Cantico dei Cantici dell'Antico Testamento, si esalta il corpo e la preparazione all'atto sessuale, proprio perché l'unione tra i coniugi rappresenta l'amore di Dio per gli uomini.

La mistica spagnola, e poi santa Teresa d'Avila, non concepiva il corpo amoroso come qualcosa di negativo, di caduco, sottoposto alla corruzione e da non amare, giacché esso è transitorio. La bellezza, per Teresa d'Avila, conosce un culmine. Nella scultura che raffigura la Santa, esposta nella Cappella Cornaro della chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Roma, sembra quasi che l'Estasi sia di tipo sessuale. Non è, questa, un'interpretazione maligna, giacché in tutta la tradizione mistica, l'atto di uscire da sé - l’estasi - è paragonato all'atto sessuale. L'"Estasi di santa Teresa" di Gian Lorenzo Bernini interpreta bene questo godimento, che nasce dal congiungimento dell'anima, la sposa, con Dio, lo sposo. Il congiungimento dell'anima trascina anche il corpo. L'amore per le "creature" di san Francesco d'Assisi, percorso come è da fermenti di autentica religiosità democratica, non implica per niente una punizione per ciò che è corporeo.

Tutta la filosofia moderna, da Cartesio fino al positivismo, ha considerato il corpo come una macchina, dunque lo ha "de-eroticizzato" alla stregua di uno strumento: si pensi all'uomo-macchina proprio del materialismo illuministico. L’eros pertanto non costituiva più un valore etico inerente al corpo, ossia che dipendeva dal fatto che l'uomo, non solo avesse un corpo, ma fosse un corpo. Il positivismo o, in generale, tutte le forme scientistiche riconducevano il corpo a un unico principio, legandolo sostanzialmente alle proprie tecniche, e riducendo l’eros a una sorta di kamasutra.

La riscoperta della corporeità dell’eros nel mondo contemporaneo potrebbe accentuarne una certa commercializzazione, una certa "mercificazione". Nell’eros commercializzato la potenza del desiderio non si conserva, ma s’inflaziona. Un eros troppo facile e senza ostacoli paradossalmente è un eros che non ha valore.

La degradazione dell’eros è un fenomeno antico come il mondo. Con la soppressione di alcuni tabù l’eros si è ulteriormente commercializzato.

Secondo la filosofia contemporanea, l'uomo non ha un corpo, ma è un corpo. Seguendo questa concezione, corpo ed anima non sono separati.

Il pensiero filosofico moderno è tutto improntato a riaffermare la centralità dei caratteri passionali dell'uomo. La civiltà attuale preferisce pensare agli individui come esseri dotati di corpo e di passioni. Questo progetto filosofico moderno invita l'uomo una volta di più al godimento delle apparenze, all'apprezzamento della corporeità. Il solo rischio è che tale atteggiamento di godimento continuo e a buon mercato possa risultare dannoso e procurarsi in tal modo riserve riguardo agli scopi importanti del corpo. L’uomo non può assolutamente prescindere dal corpo che lo pone in contatto con il mondo esterno. L'uomo deve restare non nel corpo come "macchina", ma nel corpo come "veicolo di comunicazione".

La morte del corpo sta a significare la sua importanza. La morte assume, da un lato, un significato tragico, se si crede che essa sia il nulla e che tutta la nostra esistenza si riduca all'arco biologico, dalla culla alla bara. Dall'altro essa é, come spesso si dice, il "nuovo osceno", ossia ciò che si situa fuori della scena. La morte resta il grande punto interrogativo della vita di ogni individuo. Il Nunc et in ora dell'Ave Maria esplicita la continua esposizione dell'uomo all'idea di un'improvvisa cessazione del suo essere e delle sue sensazioni. L'età moderna banalizza l'idea della morte, semplicemente ignorandola. L'industria del "caro estinto", per cui il cadavere è vestito con i suoi abiti migliori, non è altro che un modo per negare la morte o per allontanarci dalla stessa. Abbiamo tolto le mutande agli uomini e alle donne per metterle alla Morte…

Salvatore Falco

Pubblicato in <Punto d'incontro>, XII N.E., 19, 2001.



SIAMO TUTTI GENTE DI FRONTIERA

SIAMO TUTTI GENTE DI FRONTIERA

È da alcuni anni che il cantautore napoletano Pino Daniele canta dell’anima "nera" di Napoli. I suoi testi e la sua musica sono sempre più vicini ai ritmi, suoni e cultura africana. Il suo ultimo successo "Medina" da atto di questa tendenza "Danieliana". Pino canta l’Africa di Napoli, quella fatta dei tantissimi immigrati che pullulano nella città partenopea e nelle campagne Campane soprattutto in estate, quando il ‘sol leone’ la rende molto simile alle città africane. La forza e la grandezza della sua musica e testi ci riportano non solo alla realtà di Napoli, ma a quella dell’Italia in generale. Non c’è angolo del nostro ‘Bel Paese’ in cui non vive un immigrato. Da un paese di emigranti siamo passati, in questi ultimi decenni, ad essere un paese preso di mira dai tantissimi immigrati, soprattutto clandestini che "cercano l’America" da noi. Le loro storie non sono tanto diverse da quelle di milioni d’italiani che hanno lasciato l’Italia nel corso dei secoli per cercare altrove un futuro migliore.

Pino con la sua musica ci ricorda che "c’è un solo modo per vivere: cercare di comprendere il clandestino che abbiamo nel cuore e il resto verrà, siamo tutti gente di frontiera".

Nella nostra realtà quotidiana non di rado capita di sentire lo slogan: "ognuno resti a casa propria". E intanto sorgono nuove intolleranze verso gli altri, in nome dell'idea di nazione, lingua, religione o colore della pelle.

Nel mondo, però, sono sempre di più le persone che vedono nell'attuale processo di "meticciato culturale" (scambio e arricchimento reciproci fra culture diverse) il futuro dell'umanità. Fra questi il presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi quando, in occasione dell'inizio dell'anno scolastico 1999-2000, affermò: "sui banchi delle nostre scuole siedono, in numero sempre maggiore, ragazze e ragazzi immigrati in Italia con le loro famiglie. L'Italia è terra ospitale. La nostra storia è figlia dell'incontro di popoli diversi. Sappiamo fin dai tempi dell'antica Roma, che le nazioni capaci di accogliere ed integrare comunità differenti sono sempre le più prospere, le più libere".

Pino Daniele ci ricorda con la sua musica che "il razzismo non è espressione di libertà". Il razzismo nasce dalla paura e dall'ignoranza. Indifferenza, intolleranza, discriminazione razziale non sono istinti naturali. Per questo, è essenziale che i genitori educhino i figli alla convivenza. I genitori e la scuola devono far maturare nei bambini una coscienza libera da sentimenti di superiorità o inferiorità, origine-causa della paura e del rifiuto delle diversità. Tali concetti, infatti, non esistono nei bambini, ma vengono installati in loro dagli adulti attraverso un'educazione sbagliata.

Il razzismo fa parte della storia dell'uomo è come una malattia. Bisogna imparare a rigettarlo, a rifiutarlo. Dobbiamo pensare: "Se io ho paura dello straniero, anche lui avrà paura di me". Imparare a vivere insieme è la migliore arma contro l'intolleranza razziale.

Le reali diversità sono di tipo culturale e sociale. L'educazione che abbiamo ricevuto nell'infanzia ci rende differenti l'uno dall'altro. Ma questo non ci fa migliori o superiori, peggiori o inferiori in senso qualitativo.

L’inizio del nuovo millennio coincide con la nascita della nuova Europa. L’Europa dell’Euro non deve cadere nell’errore di chiudersi in se stessa e coltivare l’illusione di poter vivere separata e sorda ai problemi dell’umanità. La povertà e le crisi dei paesi del Sud del mondo ricadono direttamente sui paesi del Nord sviluppato; i milioni di migranti e di profughi che premono alle frontiere testimoniano quanto sia illusoria e sbagliata qualsiasi ipotesi di autosufficienza unilaterale. "Se Maometto non va alla montagna la montagna si muoverà", canta Daniele. Non vi possono essere benessere e sicurezza in Europa senza l’apertura di canali di immigrazione regolari e la predisposizione di politiche dell’integrazione e dell’accoglienza per gli stranieri che vivono e lavorano in Europa. Nè è pensabile una politica di coesione e d’integrazione sociale se nelle nostre città cresce il panico dell’insicurezza, se si perde la certezza del diritto e il rispetto della legalità.

L’Europa ha un ruolo fondamentale nella lotta contro la povertà del mondo. La cooperazione allo sviluppo rimane una voce ancora troppo piccola del bilancio dei paesi dell’Unione. Il debito dei paesi del Sud, la globalizzazione dell’economia, il protezionismo commerciale dei paesi sviluppati, la stessa rivoluzione tecnologica rischiano di chiudere le porte sul futuro di interi continenti, di grandi aree del mondo.

Il Mediterraneo deve essere, adesso più che in passato, un luogo di pace e di cooperazione, un polo dello sviluppo e del commercio fra i popoli, un crocevia e un simbolo della volontà di incontro e amicizia fra Nord e Sud del mondo.

L’immigrazione non è solo un problema, ma anche una grande risorsa culturale, sociale, economica per il nostro continente. Il fenomeno migratorio deve essere governato: non si può fare la deregulation sulle persone. E’ necessario avere flussi di ingresso regolari, contro la clandestinità e i trafficanti che lucrano sulla disperazione delle persone. Non chiudiamo la porta a chi chiede asilo perché fugge dalle guerre, dalla persecuzione politica, poliziesca, etnica o religiosa.

Nell’Europa del futuro non deve esserci spazio per la discriminazione sulla base del colore della pelle, dell’identità etnica o degli orientamenti sessuali delle persone. Una società sana e una democrazia libera hanno alla loro base il rispetto di uguali diritti e doveri di tutti i cittadini .


Salvatore Falco

Pubblicato in<Punto d'incontro>, XII, 18, 2001, pp. 32-33.


GLI STRANIERI NEL MONDO

GLI STRANIERI NEL MONDO

I nuovi progetti di legge sull’immigrazione e il diritto d’asilo in corso d'elaborazione in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, sono un grave segno univoco che tali provvedimenti si configurano come provvedimenti contro la nuova immigrazione, contro gli immigrati (regolari o irregolari che siano) e contro i richiedenti asilo. È una tendenza preoccupante, dinanzi alla quale non possiamo stare in silenzio.

In Occidente i lavoratori immigrati vivono in una condizione di minorità materiale, giuridica e politica, quale forza-lavoro a basso costo e senza diritti. Questa condizione d'inferiorità sociale viene ora a essere ulteriormente appesantita dalle nuove leggi alle porte, o appena varate. Leggi che spesso sono già entrate materialmente in vigore prima ancora di esserlo sul piano formale: attraverso una quantità di atti "spontanei" o organizzati, e di misure di ordine pubblico che hanno quotidianamente per bersaglio immigrati e immigrate, e attraverso le campagne di criminalizzazione dei migranti che con la guerra in corso hanno assunto intensità e violenza via via crescenti.

Negli Stati Uniti il Patriot Act ha sospeso a tempo indeterminato le garanzie fissate dal I e dal IV emendamento della Costituzione, ha introdotto una nuova figura di reato, il sospetto di reato, e ha attribuito poteri illimitati (di vita e di morte) contro i "sospetti" a tribunali militari speciali che emetteranno sentenze inappellabili; e non c’è dubbio che tra i primi destinatari di queste misure "eccezionali" ci saranno i lavoratori immigrati, sospettati e sorvegliati speciali per definizione.

In Inghilterra il governo ha rispolverato per gli immigrati islamici l’internamento senza processo, che già colpì negli anni ’60 migliaia di irlandesi, e sta attuando la secca revisione in peggio delle norme sul diritto di asilo equiparando nei fatti i richiedenti asilo ai migranti per ragioni economiche.

In Spagna la Ley de extranjeria ha inasprito le condizioni per ottenere il permesso di soggiorno e irrigidito le norme sul rimpatrio dei "clandestini" al punto tale che sono a rischio di espulsione molte decine di migliaia di immigrati.

In Germania il progetto di legge Schily prevede l’esistenza di due ben distinte classi di immigrati: i pochi immigrati ad alta qualificazione, che hanno alcune garanzie in più, e la massa degli immigrati a bassa qualificazione che tornano a essere declassati a "ospiti a tempo", tali solo fino a quando sua maestà il mercato ha bisogno di loro. Anche in questo caso il diritto d’asilo viene ristretto.

Quanto all’Italia, le associazioni degli immigrati hanno già messo in luce e criticato i punti-chiave della legge Bossi-Fini. Che sono: il contratto di soggiorno, che pone un vincolo strettissimo tra una data occupazione e il permesso di soggiorno; l’estensione del periodo di tempo in cui si può essere trattenuti nei centri di "prima accoglienza"; il passaggio da 5 a 6 degli anni necessari per poter richiedere la carta di soggiorno; la restrizione dei ricongiungimenti familiari; lo svuotamento del diritto di asilo peraltro già pressoché inesistente nel nostro paese. Per il momento, pare accantonata l’introduzione dei reati d'ingresso clandestino e di permanenza in clandestinità, ma si è già preparato il terreno in questo senso. E prima ancora che la nuova legge sia entrata in vigore, si sono già fatte strada pratiche discriminatorie "nuove" quali quella della preferenza nazional-razziale o cultural-religiosa per i popoli "cristiani" e bianchi rispetto a quelli non-cristiani e di colore, il marchio sulle mani o sui vestiti degli immigrati, la loro esclusione dai benefici fiscali e così via.

Il risultato di questa globalizzazione delle politiche restrittive e punitive verso gli immigrati è sotto gli occhi di tutti. Si va verso una nuova forma di lavoro vincolato. Si va verso la reintroduzione del modello, ‘rimani solo fin tanto che ci servono le tue braccia’, un modello che gli emigranti (italiani in primis) e il movimento operaio contestarono negli anni ’60. Si va verso la moltiplicazione delle legislazioni speciali nei confronti degli stranieri, che nascono eccezionali ma poi diventano normali. Si va verso l’approfondimento della precarietà degli immigrati, la riduzione dei loro già ridottissimi diritti individuali e, a maggior ragione, di quelli collettivi, verso la moltiplicazione dei controlli e delle restrizioni sulla loro esistenza. Si va verso un ulteriore consolidamento del diritto differenziale e la creazione di una scala gerarchica ancora più stratificata tra gli immigrati (che ricorda, a chi ha memoria, certi "anni bui".

E per quanto non si faccia che parlare dei "clandestini", tutto ciò riguarda in effetti non soltanto una sezione dell’immigrazione, ma l’intero campo del lavoro immigrato. Poiché ciò che serve al mercato è una larga massa di lavoratori immigrati massimamente duttile e sottomessa, che sia d'esempio ai lavoratori autoctoni spronando anche loro alla massima duttilità e sottomissione.

Questa linea di tendenza propria agli Stati Uniti e all’intera Europa (che qualche studioso ha definito "nuovo schiavismo") sta trovando momenti di contrasto sia nelle iniziative di lotta dei sans papiers, delle associazioni degli immigrati e, in parte, dei sindacati, sia negli organismi anti-razzisti e nelle "buone pratiche" adottate da un certo numero d'operatori sociali e strutture educative, d'assistenza e di volontariato. In questo coro di voci critiche non può mancare quella degli italiani che nel corso dei secoli hanno provato sulla propria pelle l’umiliazione della discriminazione e dello sfruttamento a causa della nazionalità, ma che hanno però contribuito allo sviluppo culturale ed economico di tanti paesi del globo.



Salvatore Falco

Punto d'incontro, XII N.E., 22, 2002.

A PUEBLA, COSTRUENDO UNA VITA DEGNA

A PUEBLA, COSTRUENDO UNA VITA DEGNA

Durante gli ultimi decenni l’uso di droga è aumentato in tutto il mondo senza distinzione di frontiere, razza, età, genere o condizione sociale. Il fenomeno droga caratterizza non solo i paesi sviluppati, come qualche tempo fa, ma anche molti paesi in via di sviluppo.

Il panorama mondiale è cambiato molto, l’uso di droga non è più esclusivo delle società industrializzate. I paesi tradizionalmente produttori o di transito, registrano oggi elevati indici del consumo interno, altri che in passato erano solo consumatori sono diventati produttori. Questa tendenza è favorita dalle nuove strategie organizzative e di mercato del narcotraffico, che hanno reso possibile l’aumento della quantità di droga che rimane nel paese d’origine destinata al mercato interno. (Consiglio Nazionale Contro le Dipendenze, 2001).

Per quanto riguarda i fattori socio-economici e politici che influenzano l’incremento vertiginoso di uso di droga, senza dubbio la povertà ha un ruolo determinante.

Le condizioni di povertà, alcune estreme, nelle quali vivono milioni di famiglie messicane hanno provocato un aumento del numero di bambini e adolescenti che devono contribuire all’economia familiare, che devono sostenersi da soli, abbandonando la propria casa e lavorando per la strada, situazione aggravata dal constante aumento della popolazione povera che emigra verso le grandi città in cerca di condizioni di vita migliori.

È proprio questa popolazione quella più a rischio di consumo di droghe: migliaia di bambini che dai tre o quattro anni di età sono obbligati a inventarsi un lavoro per strada (venditori, pulivetri, mangiafuoco, ecc.). Alcuni vivono ancora con la famiglia ma molti altri trovano nella strada la propria casa e sono così retaggio costantemente della droga, della violenza e della prostituzione. I rifiuti, le fogne, i parchi e i mercati diventano gli unici luoghi per proteggersi.

Di fatto, diversi studi realizzati da organismi governativi messicani, rivelano un aumento allarmante dell’indice di consumo di droga tra i minori, insieme ai molti fattori che aumentano la loro vulnerabilità.

La maggior parte dei minori che vivono nella strada e nelle zone di alta attività notturna consuma droghe: per lo più inalanti, marijuana e cocaina. (Consiglio Nazionale Contro le Dipendenze, 2001).

In Messico le tendenze sono allarmanti:

· aumento notevole del consumo regolare di droghe;
· abbassamento dell’età (intorno ai dieci anni);
· aumento del consumo di certe sostanze come l’eroina, le anfetamine;
· uso della cocaina in gruppi che tradizionalmente non la utilizzavano come i bambini e donne.

Il fattore nuovo è l’allargamento dei consumatori a nuovi gruppi di popolazione. Regolarmente la popolazione maschile era ritenuta la maggior consumatrice di droghe per cui le iniziative sia governative che private erano riservate soprattutto a questa parte di popolazione.

Gli ultimi dati dell’Inchiesta Nazionale contro le Dipendenze (1999), mostrano un aumento del numero di bambine e adolescenti della strada, che usano inalanti e che hanno figli in queste circostanze di alto rischio.

A Puebla, in particolare, l’accentuata povertà delle zone rurali ha portato all’incremento della popolazione della città e al fenomeno della migrazione verso gli Stati Uniti.

Le statistiche della Commissione Nazionale contro le Dipendenze (2001), mostrano che Puebla è in vetta alla media nazionale, tra i primi Stati messicani con un elevato indice di tossicodipendenze, le principali sostanze utilizzate sono, in ordine di preferenza, la marijuana, i solventi, la cocaina e l’eroina.

Il maggior problema, é che negli ultimi anni è aumentato il numero dei bambini e adolescenti tossicodipendenti, associato al problema della denutrizione, malattie veneree come l’AIDS e la violenza.

Sono pochi programmi governativi che si occupano di loro. Allontanati dalle proprie case di origine a causa della povertà, ristrettezze economiche, lavoro, violenza familiare, abusi sessuali, i bambini e adolescenti a rischio, devono vivere la vita per sopravvivere.

Gli interventi degli organismi (pubblici e privati) non sono "sufficientemente incisivi né adeguati" (La Jornada, ottobre 2000). Per questo è sorto a Puebla il Progetto "Costruendo una Vita Degna": per prevenire e prendersi cura dei bambini a rischio e con problemi di tossicodipendenza.

Si offre uno spazio dove i bambini e adolescenti possono scoprire e sviluppare le attitudini necessarie per costruirsi una vita degna.

Si previene con un lavoro continuo d’informazione e formazione umana dei bambini nelle scuole a rischio delle zone marginate della Cittá.

Si propiziano spazi terapeutici a livello personale, familiare e gruppale, per il recupero integrale della persona.

Si promuove la formazione degli agenti sociali con corsi e conferenze.

Si favorisce la collaborazione, sia nell’ambito pubblico locale, sia in quello internazionale con gli organismi e le istituzioni che si occupano del problema.

Patricia Barrientos Mendoza

Salvatore Falco


Punto d’Incontro il Giornale della Società Civile italiana in Messico, XIV N.E., 27, 2003, pp. 46-47.

PESIERI E PAROLE SUL MONDO GLOBALIZZATO

PESIERI E PAROLE SUL MONDO GLOBALIZZATO

Distruzione o scambio culturale? La globalizzazione é uno dei fenomeni sociali su cui più si dibatte attualmente. Il suo impatto e le conseguenze nella vita dell’uomo contemporaneo, costituiscono un oggetto di studio basico per l’antropologia moderna.

Quando parliamo di “globalizzazione” ci riferiamo implicitamente ad una gran varietà di concetti. La parola é “polisemica”, poiché allude a molti processi distinti che stanno occorrendo oggi o che occorrono da 500 anni e che sembrano far parte di uno stesso concetto. Alcuni di questi processi si riferiscono alla desindustrializzazione dei paesi occidentali e il trasferimento delle industrie nei paesi a basso costo di manodopera. All’organizzazione dei processi di produzione a scala globale mediante la divisione internazionale del lavoro. All’espansione e alleanze delle multinazionali per riempire tutti gli spazi disponibili nel mercato. All’inserzione delle forme d’economia locale nei mercati mondiali. Alla migrazione di manodopera a basso costo dei paesi poveri verso le società opulenti. Allo sviluppo della tecnologia informatica. Alla fabbricazione di prodotti culturali occidentali (specialmente nordamericani) destinati al consumo in tutti i mercati del pianeta. Alla perdita, volontaria e involontaria, della capacità di regolare i settori dell’economia e sociali dei singoli stati. Alle alleanze commerciali e politiche di alcuni stati di carattere tras-nazionale (UE, NAFTA, Mercosur, ecc.). Alla caduta delle barriere doganali per favorire il commercio e il flusso di capitali.

Parliamo di globalizzazione, ma in realtà dobbiamo affermare che è ormai cominciata la post-globalizzazione. Il sistema ha dimostrato che non funziona e non può sostenersi da solo. Ai consumatori assicurano che tutto va bene, che grazie all’internazionalizzazione dei mercati ci saranno più posti di lavoro, più opportunità per tutti, che questa è l’occasione per i paesi in via di sviluppo per superare i propri problemi economici.

Le statistiche della Banca Mondiale del Lavoro affermano che nel 1980 circa un 50% della popolazione mondiale viveva con meno di due dollari al giorno. Oggi le cose vanno meglio, già non sono due dollari ma 2.01. Che gran miglioramento! Gli Stati Uniti continuano ad imporre la propria autorità nel nome della libertà e di una vita degna.

Nei paesi dipendenti dell’impero americano come il Brasile l’incremento dell’economia è del 110%, però gli abitanti sono i più poveri del mondo.

In Messico esistono sessanta milioni di persone (60% della popolazione) che vivono in condizioni di estrema povertà. Il 70% delle famiglie povere messicane riesce a spendere solo il 10% di quello che spendono le famiglie ricche. L’1% del totale della popolazione spende il 20% dell’economia nazionale. In Messico le statistiche economiche affermano che l’agricoltura è nelle sue migliori condizioni perché produce più del passato. Allo stesso tempo però, esistono 25.000 contadini senza lavoro e molti devono abbandonare la propria terra e cercare condizioni di vita migliori negli Stati Uniti.

In tutto il mondo le persone, preparate professionalmente, hanno avuto un incremento della loro qualità di vita, però coloro che non sono preparati hanno subito perdite incalcolabili. Sembra che la crescita che promette il sistema si concentra unicamente in piccoli settori che insieme formano ciò che si denomina “la società globalizzata”.

La globalizzazione risulta così essere un sistema che distrugge più di quello che da, che toglie ad alcuni per dare ad altri.

I governi sono i principali agenti della globalizzazione. Sono quelli che hanno smantellato le reti di protezione dei cittadini. Il cuore del sistema sono le multinazionali: 65.000 organizzazioni che danno lavoro a 200 milioni di persone (33% della popolazione mondiale) e che rappresentano il 40% del prodotto interno lordo mondiale. Il 70% del commercio mondiale dipende oggi dalla globalizzazione e i suoi benefici sono unicamente per una piccola parte della popolazione mondiale.

Non possiamo certo dire che oggi viviamo i benefici della globalizzazione, non li viviamo perché siamo in un’epoca di guerre e di morte continua. La politica degli Stati Uniti non è una politica economica, è una politica di guerra, di conquista, tanto economica quanto culturale e il “dopo 11 settembre” lo conferma.

Ormai i singoli cittadini non hanno più la possibilità di decidere il destino dei propri paesi, è sempre più difficile per il singolo individuo, scegliere la forma di vita che preferisce o che più gli conviene.

Quali opzioni abbiamo? È molto difficile decidere. Ormai non è possibile una desglobalizzazione perché, i paesi sono mutuamente condizionati dal commercio mondiale. Quello che si può fare è darle un nuovo senso a questa globalizzazione, cioè capirne i vantaggi e i lati positivi. Ci riferiamo al tema degli scambi culturali, l’avvicinamento più profondo dei singoli agli ideali mondiali. Al rispetto di tutte le culture e alla loro integrazione. Alla difesa mondiale dei diritti umani, alla crescita integrativa di tutti i popoli. Per raggiungere tali obiettivi sarà necessario introdurre in tutte le organizzazioni commerciali, civili e governative una morale basata nel principio del “riconoscimento morale”, che si rispetti ogni essere umano, in quanto persona, che le ricchezze della terra siano socialmente distribuiti. A livello personale faremo prevalere la ragione intelligente di coloro i quali amano e si preoccupano per le cose e di migliorare il mondo in cui vivono, convinti che ne meritiamo uno migliore. Dobbiamo formare coscienze civili più forti e ferme. Essere capaci di preservare il luogo dove viviamo, a cominciare dalla nostra casa. Far sì che atteggiamenti e iniziative, così come l’associazionismo civile, il volontariato, la solidarietà, la denuncia delle ingiustizie e il pagare le tasse si convertano in abitudine di vita. Abbiamo bisogno di comprendere l’altro, soprattutto il diverso, conoscerci meglio per essere più liberi e responsabili.

Le società devono essere più forti, più solide, più partecipi nei problemi mondiali e coscienti.

Il problema attuale l’abbiamo provocano noi e a noi tocca risolverlo.


Salvatore Falco e Gulliermo España Sotomayor


Punto d’incontro, il giornale della Societá Civile Italiana in Messico, Noviembre-Diciembre 2003, Anno XIV N.E., n.28, pp. 11-12.